Winston Mansell ritornò dietro al bancone ed appoggiò i gomiti sul legno freddo, incurvò le spalle ed attese l’arrivo di qualche cliente o di qualche amico trovatosi in zona, o di qualcuno e basta. In un’intera mattinata si erano presentati pochi clienti, e ancor meno avevano comprato sigarette. Winston si muoveva come un automa: prendeva coscienza di ciò che avevano intenzione di comprare, batteva il prodotto alla cassa, strappava lo scontrino, lo porgeva, prendeva i soldi, dava l’eventuale resto e chiudeva la cassa.
Quando non compiva queste noiose azioni rimaneva poggiato sul bancone ad osservarlo, e solo quel giorno notò una scheggiatura nel legno causata dall’impatto con qualcosa duro ed appuntito; ci passò il dito sopra lentamente, saggiandone le irregolarità e vi schiacciò sopra l’indice con forza, in modo che il polpastrello prendesse la forma della scheggiatura.
Ricordò la causa di quell’imperfezione nel bancone.
Era il primo anno che aveva aperto quella tabaccheria, senza sogni, senza aspirazioni, giusto un mezzo per tirare avanti; di certo non è con una tabaccheria che si può diventar ricchi, però è una buona assicurazione per una vita dignitosa. Quel giorno aveva litigato con Jennifer perché era riuscito a perdere di nuovo il mazzo di chiavi della macchina e aveva costretto sua moglie a prendere quello di riserva per l’ennesima volta: per lui non c’era alcun problema nell’usare il secondo mazzo, la macchina funziona lo stesso, ma sua moglie è una maniaca dell’ordine e tutto ciò che turba l’ordine dell’ambiente della in cui vive turba anche il suo ordine mentale, per ciò anche la futile preoccupazione di aver perso la prima chiave della macchina la innervosisce e la irrita. Verso le 13.30 quando mancava un’ora alla chiusura della sua attività per pausa pranzo, Jennifer arrivò furibonda da Winston: i denti stretti, lo sguardo fisso su di lui, e camminava rapidamente enfatizzando il rumore della suola che batteva contro il pavimento.
“Eccole le chiavi, erano nella cesta dei panni sporchi, sotto la tua maglietta e i tuoi pantaloni” Disse tanto rapidamente queste parole che Winston dovette riflettervi per qualche secondo per comprenderle tutte; e in quello stesso momento lei gli lanciò la chiave della macchina.
Lui non fu abbastanza pronto da accorgersi subito del lancio e quindi dovette slanciarsi all’indietro ed alzare le braccia per tentare di afferrare le chiavi che avevano raggiunto la loro massima altezza ed iniziavano a precipitare.
Nel compiere questo movimento, urtò l’espositore di sigarette che cadde sul bancone e con lo spigolo lo scheggiò, lasciando quel segno indelebile su di esso.
“Lucky Strike Blu da 20” Annunciò un uomo dinnanzi a lui che stava piegato sul bancone ad osservarlo e tastarlo. Quella voce lo riportò alla realtà; il ricordo si dissolse lentamente, rimanendo per qualche secondo ancora aggrappato alla sua mente, come se volesse continuare a vivere attraversò la sua memoria.
Alzò lo sguardo, quasi impettendosi come un soldato colto di sorpresa dal caporale e portò lo sguardo sul volto da cui proveniva quella voce.
Non appena riuscì ad avere un’immagine chiara di chi l’aveva strappato dai ricordi, il suo sguardo mutò: divenne cupo. Gli occhi si socchiusero: divennero annoiati. La lingua s’appesantì: divenne impastata.
Respirò profondamente e rumorosamente a lungo, attendendo che fosse lui a parlare e l’altro fece lo stesso, probabilmente con lo stesso obiettivo.
Ma il cliente fu meno paziente del tabaccaio.
“Neanche le sigarette posso avere qui?” Disse il cliente con un sorriso a metà tra lo scherzoso e lo stizzito dipinto sul volto.
Distolse gli occhi da Winston ispezionando il negozio, non che non ci fosse mai stato, ma anche solo tenere l’attenzione fissa su di lui aumentava la sua tensione e non poteva più sopportarla; la mano destra tamburellava sul bancone in legno, mentre gli occhi ancora vagavano per la tabaccheria, tant’era la tensione che modificò in un attimo l’umore dell’uomo.
Battè un pugno sul bancone con tanta veemenza da farsi male, provocando un forte tonfo.
“Allora me le dai queste cazzo di sigarette o no?” Gridò gonfiando i muscoli del collo e sgranando gli occhi con ancora la mano chiusa a pugno poggiata sul bancone, le vene si delineavano su quest’ultima e la percorrevano per intero
Per fortuna la tabaccheria era vuota e nessuno, apparte Winston, assistette a tale scena.
Winston allungò la mano, prese il pacchetto di Lucky Strike e le passò all’uomo, facendole scivolare sul bancone per un brevissimo tratto, quasi temesse di avere contatti con lui.
“Cazzo, Winston!” Gridò di nuovo il cliente, prendendo le sigarette “Sono tuo fratello! Sono passato in questo buco di merda per salutarti e tu neanche mi rivolgi la parola!” L’uomo è fuori di sé: grida e sbraita, agita la mano che stringe il pacchetto di sigaretta, respira a pieni polmoni, il petto s’alza e s’abbassa, le vene sulla fronte e sulle tempie pulsano impazzite, gli occhi sono completamente aperti, sbarrati, quasi strabuzzanti.
“Ti ho detto di farti vedere il meno possibile qui, soprattutto a quest’orario, tra poco passerà Jennifer con la macchina e non voglio che ti veda qui.” Rispose Winston, antitesi perfetta del fratello, con le mani poggiate sul bancone, le braccia larghe ed i palmi rivolti verso l’interno.
“Io cerco di passare almeno una volta alla settimana di qui per venire a salutarti e tu, brutto stronzo, vuoi anche cacciarmi?” Domandò retorico al fratello, mentre la sua rabbia iniziò a scemare e quello riprese il controllo di sé. “Va be’, basta.” Si autoimpose quell’uomo scuotendo la mano che aveva battuto sul bancone.
“Sei venuto solo per comprare un pacchetto di Lucky Strike?” Domandò Winston, con un tono impaziente, incalzante, mentre adesso lui iniziò a tamburellare le dita sul bancone per diminuire la frizione che s’era creata tra i due ed il nervosismo che si erano causati l’un l’altro.
“Sono venuto per salutarti!” Alzò di nuovo la voce il maggiore, ma fu l’ultimo zampillo di furore che si spense quasi istantaneamente, e quello guardò per un attimo il pavimento e le sue scarpe, per poi tornare su Winston. “No, comunque, non sono venuto solo per salutarti, ti ho portato questo” E cacciandosi una mano nella tasca del tranch, ne tirò fuori una busta di lettere, rigonfiata dal suo contenuto, che porse al fratello.
La rabbia di Winston raggiunse nuovamente livelli altissimi, andando quasi ad annebbiargli, ma lui fu abbastanza bravo da controllarla e porvi un freno, in modo da non esplodere in qualche reazione folle e smodata contro un membro della sua famiglia. “Ti ho detto mille volte che non voglio questa merda di carità.” Disse a denti stretti, come se dovesse tener chiusa ogni apertura del suo corpo per impedire alla rabbia di fuoriuscire “Per quel che ne so, potrei anche finire in galera per questi.”
Il fratello rimase con la mano e la busta tese verso di lui, respirava lentamente, non adirato, non deluso, ma dolorante come se Winston con quel rifiuto gli avesse negato il suo affetto.
“Winston…” Ripetè il maggiore con un tono di rassegnazione ed uno sguardo che simulava la voce.
“Vattene, Richard!” Gridò Winston indicando col braccio e l’indice tesi in tutta la loro lunghezza ad indicare l’uscita.
Proprio in quel momento la testa di un cliente fece capolino da quella stessa porta. “E’ permesso?” Chiese, probabilmente credendo, dalle urla, che si stesse svolgendo qualche questione privata.
“Sì, prego, entri pure.” Disse Winston cercando di rendersi il più affabile possibile dopo una scarica di rabbia del genere.
Richard guardò catturò per un’ultima volta lo sguardo di Winston ed uscì.
Dove Tacciono I Noiosi
Sono uno schifoso sputasentenze, superbo ed estremamente intelligente, pronto a ribaltare ogni vostra concezione. E se siete qui è perchè volete il mio parere.
mercoledì 1 febbraio 2012
martedì 20 dicembre 2011
Untitled - Parte prima
...Fattomi lancia e scudo delle prische conoscenze, ho combattuto.
"La cosa non mi sorprende affatto, sono sempre stati due arrampicatori sociali, probabilmente se trovassero due ricchi ereditieri sarebbero capaci di mandare a puttane la loro famiglia pur di avere qualcosa in più da spendere" Disse Winston Mansell sorridendo alla moglie, mentre con una mano reggeva il piatto che stava passando sotto il getto d’acqua del lavandino per togliervi il detersivo.
"Avresti dovuto vedere come quella troia di Stacey come ci provava col signor Addison, tanto squallida da far ridere, però, Dio, quello se l’è portata nel suo ufficio per “parlare”, quindi credo abbia ottenuto qualcosina" Aggiunse Jennifer Mansell con lo sguardo perso nel vuoto e un mezzo sorriso disegnato sul volto, come se fosse in contemplazione del ricordo descritto dalle sue parole.
"Perché non fai anche tu qualche chiacchierata col signor Addison? Dopotutto sei sempre stata molto brava a parlare e magari riusciamo a comprarci quella cavolo di lavastoviglie ed eviteremmo di screpolarci le mani usando questo detersivo da due dollari." Il sorriso ironico e provocatorio si delineò sul volto di Winston che lo rivolse alla moglie.
"Vaffanculo, Winston!" Disse lei istintivamente, senza neanche aver capito che si trattasse di una provocazione "Perché non ci vai tu dal signor Addison? Mi sembra che gradisca anche gli uomini, certo, col culo peloso che ti ritrovi potresti avere qualche problemuccio."
Winston Mansell rimase qualche secondo in attesa, osservando il volto della donna, aspettando che vi si delineasse un sorriso, questo non accadde, sembrava davvero risentita dalla battuta del marito, ma Winston non le avrebbe mai chiesto scusa, per lui anche la più piccola diatriba diventavo motivo di preservazione dell’orgoglio.
"Miao! Come siamo graffianti oggi! La mia mogliettina non capisce neanche l’ironia?"
"Lo sai che l’ironia non la capisco" disse finendo di asciugare un piatto e ponendolo in cima alla pila che si era formata alla sua destra "E poi chi ti ha detto che io voglia una lavastoviglie? Lavare i piatti è uno dei momenti più belli della giornata, almeno spettegoliamo un po’, sai quanto io adori farmi i fatti degli altri" sembrava aver concluso, ma di certo neanche Jennifer era tipo da chinar il capo e preferire lasciar cadere la questione che affrontarla "Oppure il mio maritino non può rovinarsi le sue manine d’oro? Che c’è? Con le mani screpolate ti si irrita il pisello quando vai a pisciare?" Lo provocò apertamente. Avevano un modo diverso d’intendere l’ironia e la provocazione: Winston non aveva problemi a riconoscerle entrambe e sapeva usarle in maniera sottile ed ambigua, senza alcun fondo di cattiveria. Almeno non verso sua moglie.
Jennifer provocava in modo diretto ed aperto, ritenendo che essere espliciti desse più enfasi alla sua istigazione, compensando il fatto che una provocazione aperta risultava facilmente attaccabile, e soprattutto sconveniente in pubblico; questa era solo una delle tante cose in cui i due differivano completamente, ma tanti erano i punti di differenza quanti erano i punti di comunione. Erano sicuramente una coppia interessante.
"Ma come sei volgare, ogni due parole scatta un riferimento sessuale, sei proprio una ninfomane, moglie" Concluse quello continuando a far ricorso alla sua ironia, ben sapendo che la moglie non l'avrebbe capita e se la sarebbe presa ancor di più, adorava farla arrabbiare.
Quella volse lo sguardo verso di lui e gli sorrise. L'aveva capita.
"Che ore sono, Jennifer?" Chiese Winston mentre asciugava l'ultimo piatto per poi riporlo nella credenza in cima ad una pila di altri sei piatti identici.
Jennifer Mansell sotrasse la mano sinistra al flusso d'acqua ed osservò per un attimo l'orologio impermeabili da due soldi che aveva al polso "Le quattro e un quarto" Rispose senza alcuna particolare inflessione e senza volgere neanche per un attimo gli occhi verso il marito.
"Tra meno di un'ora devo tornare a lavoro" Aggiunse più rivolto a se stesso che alla sua metà.
"Beato te, io ho il turno di notte alla lavanderia" Rispose Jennifer Mansell rattristandosi e sbuffando al solo pensiero del lavoro. Odiava il turno di notte, nonostante iniziasse alle sei del pomeriggio, non riusciva a godere delle ore libere precedenti poichè il pensiero del lavoro gravava talemente tanto nella sua mente che, non appena questa riusciva a distrarsi per un attimo, le veniva subito riproposto da qualche anfratto maligno del suo cervello il ricordo delle ore di noia e tedio che l'attendevano.
Winston Mansell non replicò e passò a lavare le posate.
La citta di Chicago era orribile in quel periodo dell'anno, afflitta quasi sempre da vento e pioggia, e anche le poche volte che c'era il sole nella Windy City i pali della luce si accendevano quando gli ultimi raggi di luce morenti ancora illuminavano la città e queli lampioni già accesi durante quei pochi minuti in cui la luce naturale ancora raggiungeva la città, davano alla città una senso spettrale e cupo, come crudeli nunzi dell'inverno.
Winston Mansell fu costretto a prender parte a questo lugubre quadro, inserendosi nelle strade della città per raggiungere la tabaccheria di cui era proprietario. Il rumore dei suoi passi era praticamente impercettibile nel frastuono della metropoli, eppure lui riusciva ben a sentirlo ed era su questo ch si concentrava mentre camminava, sui suoi piedi, osservandone l'avanzare quasi ipnotizzato, sentendosi quasi come se non fosse lui a muoverli ed a creare l'ipnosi, ma fosse solo vittima di quel movimento. I suoi occhi erano ben fermi sulle scarpe, delle immagini che recepivano però la mente elabroava giusto il minimo per non perdere completamente il contatto con la realtà, alla mente serviva solo un qualcosa di stabile su cui posar gli occhi per non dover prestare troppa attenzione a ciò che avveniva tutt'intorno, in modo da poter spaziare e dilungarsi su riflessioni e considerazioni di cui Winston Mansell, proprio come il movimento dei piedi, vi era solo partecipe. Era un'ottima tecnica di difesa; lo spettro del lavoro aleggiava pesantemente anche su di lui e più si avvicinava al luogo delle fatiche più lo spettro gravava su di lui, perdersi in queste oasi di libertà ed astrazione lo proteggeva dallo spettro e rendeva meno faticosa la parte meno bella della giornata.
Finalmente quel movimento immutabile cessò e Winston, con le chiavi nella mano destra, aprì la tabaccheria, salendo quel piccolo gradino in marmo bianco che dava l'ingresso a questa; l'entrata dell'inferno così l'aveva battezzato. Entrato girò con la mano sinistra il cartello appeso sulla porta di vetro, sul quale era possibile leggere: OPEN.
E' da oltre un anno che non scrivo una storia, noterete la scrittura un po' forzata e gli errori di punteggiatura.
Per la prima vogliate scusarmi: mi scioglierò col tempo.
Per la seconda: sono le due di notte, sono seduto sul cesso, e non ho alcuna voglia di ricontrollare.
Vi auguro una buona lettura
Marco Migliaccio
"La cosa non mi sorprende affatto, sono sempre stati due arrampicatori sociali, probabilmente se trovassero due ricchi ereditieri sarebbero capaci di mandare a puttane la loro famiglia pur di avere qualcosa in più da spendere" Disse Winston Mansell sorridendo alla moglie, mentre con una mano reggeva il piatto che stava passando sotto il getto d’acqua del lavandino per togliervi il detersivo.
"Avresti dovuto vedere come quella troia di Stacey come ci provava col signor Addison, tanto squallida da far ridere, però, Dio, quello se l’è portata nel suo ufficio per “parlare”, quindi credo abbia ottenuto qualcosina" Aggiunse Jennifer Mansell con lo sguardo perso nel vuoto e un mezzo sorriso disegnato sul volto, come se fosse in contemplazione del ricordo descritto dalle sue parole.
"Perché non fai anche tu qualche chiacchierata col signor Addison? Dopotutto sei sempre stata molto brava a parlare e magari riusciamo a comprarci quella cavolo di lavastoviglie ed eviteremmo di screpolarci le mani usando questo detersivo da due dollari." Il sorriso ironico e provocatorio si delineò sul volto di Winston che lo rivolse alla moglie.
"Vaffanculo, Winston!" Disse lei istintivamente, senza neanche aver capito che si trattasse di una provocazione "Perché non ci vai tu dal signor Addison? Mi sembra che gradisca anche gli uomini, certo, col culo peloso che ti ritrovi potresti avere qualche problemuccio."
Winston Mansell rimase qualche secondo in attesa, osservando il volto della donna, aspettando che vi si delineasse un sorriso, questo non accadde, sembrava davvero risentita dalla battuta del marito, ma Winston non le avrebbe mai chiesto scusa, per lui anche la più piccola diatriba diventavo motivo di preservazione dell’orgoglio.
"Miao! Come siamo graffianti oggi! La mia mogliettina non capisce neanche l’ironia?"
"Lo sai che l’ironia non la capisco" disse finendo di asciugare un piatto e ponendolo in cima alla pila che si era formata alla sua destra "E poi chi ti ha detto che io voglia una lavastoviglie? Lavare i piatti è uno dei momenti più belli della giornata, almeno spettegoliamo un po’, sai quanto io adori farmi i fatti degli altri" sembrava aver concluso, ma di certo neanche Jennifer era tipo da chinar il capo e preferire lasciar cadere la questione che affrontarla "Oppure il mio maritino non può rovinarsi le sue manine d’oro? Che c’è? Con le mani screpolate ti si irrita il pisello quando vai a pisciare?" Lo provocò apertamente. Avevano un modo diverso d’intendere l’ironia e la provocazione: Winston non aveva problemi a riconoscerle entrambe e sapeva usarle in maniera sottile ed ambigua, senza alcun fondo di cattiveria. Almeno non verso sua moglie.
Jennifer provocava in modo diretto ed aperto, ritenendo che essere espliciti desse più enfasi alla sua istigazione, compensando il fatto che una provocazione aperta risultava facilmente attaccabile, e soprattutto sconveniente in pubblico; questa era solo una delle tante cose in cui i due differivano completamente, ma tanti erano i punti di differenza quanti erano i punti di comunione. Erano sicuramente una coppia interessante.
"Ma come sei volgare, ogni due parole scatta un riferimento sessuale, sei proprio una ninfomane, moglie" Concluse quello continuando a far ricorso alla sua ironia, ben sapendo che la moglie non l'avrebbe capita e se la sarebbe presa ancor di più, adorava farla arrabbiare.
Quella volse lo sguardo verso di lui e gli sorrise. L'aveva capita.
"Che ore sono, Jennifer?" Chiese Winston mentre asciugava l'ultimo piatto per poi riporlo nella credenza in cima ad una pila di altri sei piatti identici.
Jennifer Mansell sotrasse la mano sinistra al flusso d'acqua ed osservò per un attimo l'orologio impermeabili da due soldi che aveva al polso "Le quattro e un quarto" Rispose senza alcuna particolare inflessione e senza volgere neanche per un attimo gli occhi verso il marito.
"Tra meno di un'ora devo tornare a lavoro" Aggiunse più rivolto a se stesso che alla sua metà.
"Beato te, io ho il turno di notte alla lavanderia" Rispose Jennifer Mansell rattristandosi e sbuffando al solo pensiero del lavoro. Odiava il turno di notte, nonostante iniziasse alle sei del pomeriggio, non riusciva a godere delle ore libere precedenti poichè il pensiero del lavoro gravava talemente tanto nella sua mente che, non appena questa riusciva a distrarsi per un attimo, le veniva subito riproposto da qualche anfratto maligno del suo cervello il ricordo delle ore di noia e tedio che l'attendevano.
Winston Mansell non replicò e passò a lavare le posate.
La citta di Chicago era orribile in quel periodo dell'anno, afflitta quasi sempre da vento e pioggia, e anche le poche volte che c'era il sole nella Windy City i pali della luce si accendevano quando gli ultimi raggi di luce morenti ancora illuminavano la città e queli lampioni già accesi durante quei pochi minuti in cui la luce naturale ancora raggiungeva la città, davano alla città una senso spettrale e cupo, come crudeli nunzi dell'inverno.
Winston Mansell fu costretto a prender parte a questo lugubre quadro, inserendosi nelle strade della città per raggiungere la tabaccheria di cui era proprietario. Il rumore dei suoi passi era praticamente impercettibile nel frastuono della metropoli, eppure lui riusciva ben a sentirlo ed era su questo ch si concentrava mentre camminava, sui suoi piedi, osservandone l'avanzare quasi ipnotizzato, sentendosi quasi come se non fosse lui a muoverli ed a creare l'ipnosi, ma fosse solo vittima di quel movimento. I suoi occhi erano ben fermi sulle scarpe, delle immagini che recepivano però la mente elabroava giusto il minimo per non perdere completamente il contatto con la realtà, alla mente serviva solo un qualcosa di stabile su cui posar gli occhi per non dover prestare troppa attenzione a ciò che avveniva tutt'intorno, in modo da poter spaziare e dilungarsi su riflessioni e considerazioni di cui Winston Mansell, proprio come il movimento dei piedi, vi era solo partecipe. Era un'ottima tecnica di difesa; lo spettro del lavoro aleggiava pesantemente anche su di lui e più si avvicinava al luogo delle fatiche più lo spettro gravava su di lui, perdersi in queste oasi di libertà ed astrazione lo proteggeva dallo spettro e rendeva meno faticosa la parte meno bella della giornata.
Finalmente quel movimento immutabile cessò e Winston, con le chiavi nella mano destra, aprì la tabaccheria, salendo quel piccolo gradino in marmo bianco che dava l'ingresso a questa; l'entrata dell'inferno così l'aveva battezzato. Entrato girò con la mano sinistra il cartello appeso sulla porta di vetro, sul quale era possibile leggere: OPEN.
E' da oltre un anno che non scrivo una storia, noterete la scrittura un po' forzata e gli errori di punteggiatura.
Per la prima vogliate scusarmi: mi scioglierò col tempo.
Per la seconda: sono le due di notte, sono seduto sul cesso, e non ho alcuna voglia di ricontrollare.
Vi auguro una buona lettura
Marco Migliaccio
lunedì 24 ottobre 2011
I valori sociali: una brutta storia di dualismo.
I valori.
Condannati dagli edonisti, glorificati dagli intellettuali, citati dagli anziani, ignorati dai giovani, confusi dalla società.
Per quanto io apprezzi la libertà della società odierna, vi è una pecca in questa di cui m'interessa parlare, perchè è giusto che io non vi elenchi solo i pregi di questa società, ma anche i difetti; i miei sono pareri, di una certa rilevanza, ma pur sempre pareri. Io vi fornisco due verità, un parere e voi ne traete una conclusione.
Ciò di cui vi parlo oggi è del dualismo della società odierna, la quale innalza alcuni valori ponendoli come basi dell'esistenza, per poi, alla prima manifestazione di quel valore, condannarlo, etichettandolo come sconveniente e infantile.
Questa considerazione che nutrivo da un po' di tempo, mi è tornata in mente pochi minuti fa, guardando il grande fratello (Sì, il grande fratello) in cui una ragazza di nome Floriana si vantava della sua cultura, dicendo di leggere Shakespeare a otto anni e di leggere ogni sera Schopenauer e Petrarca.
I produttori hanno creato una sfida in cui tre ragazzi dovevano scegliere a chi dare accesso alla casa tra questa Floriana ed Ylenia, un'altra ragazza di cultura decisamente minore, per quello che ho capito di primo acchitto. La prima ha iniziato subito ad esporre i motivi che le avrebbero dovuto garantire l'entrata nella casa: la sua cultura, le sue letture, e la sua intelligenza "Perchè leggo Schopenauer tutte le sere" questa una sua citazione.
Subito il pubblico ha iniziato a rumoeraggiare con versi denigratori, svalutando così la ragazza, mentre l'altra (Ylenia) ha detto: "Io sono ignorante rispetto a te, perchè se tu leggi Schopenauer e Foscolo (La ragazza pecca un po' di confusione sui poeti italiani), io ogni sera leggo Topolino." Ed il pubblico subito ad esultare, con un fracasso di mani, di voci, di gioia.
Allora ho compreso una cosa: nella società odierna non c'è il concetto di Umiltà, ma il concetto di Svalutazione.
Più uno svaluta se stesso, più sarà glorificato e apprezzato, mentre più uno innalza se stesso, più sarà odiato e svalutato poi da terzi.
Comprendo che una persona che innalza se stesso può peccare di Superbia, ma quando vi sono le basi per essere superbi, quando questa superbia è supportata da qualità palpabili e reali, perchè non mostrarle?
Non si tratta di essere superbi, ma di essere giusti con se stessi.
Nell'esempio del Grande Fratello il pubblico, con quelle grida è come se avesse detto: "Viva l'ignoranza! L'importante è che non se la tiri, poi se un'idiota, non importa."
Io stesso sono "superbo", mi ritengo superiore a quasi ogni mio cotenaeo dal punto di vista intellettivo e culturale, e nel 95% dei casi ho ragione; di certo la mia cultura non è nata con me, ho letto, ho studiato, ho riflettuto, ho impiegato del tempo per la riflessione, la lettura, la musica, la filosofia ed ecco cosa sono diventato.
Sarebbe meglio se io dicessi "Io ho passato anni della mia vita a riflettere, pensare, interrogarmi, leggere, ma sono un ignorante, non so niente, non conosco niente e sono tanto intelligente e acculturato quanto ogni mio cotenaeo.
E la meritocrazia per cui tanto si combatte dov'è finita?
Io ho IMPIEGATO il mio tempo per raggiungere un tale livello e ora mi MERITO di usufruirne e di sentirmi migliore e superiore rispetto ad altri.
In ogni caso non è tutto merito mio, è anche merito dei miei geni, bisogna nascere predisposti per raggiungere un tale livello intellettuale, un idiota che studia quanto me, non raggiunge il mio livello.
La superbia è giusta, quando supportata da basi solide, la svalutazione non è mai giusta.
Il dualismo che da il titolo al post è proprio quello tra sicurezza di se stessi e svalutazione.
La società ci sprona ad essere sicuri di noi, ad avere stima di noi stessi, in poche parole ci sprona ad una superbia contenuta.
Ma qual'ora si veda in televisione o in qualunque altro luogo anche un minimo accenno di superbia, subito la si condanna; e la condanna della superbia è frutto proprio della società, è sempre lei la madre sbronza che c'inculca quest'opposizione: Abbi stima di te stesso, ma non mostrare mai la tua stima.
E allora cosa me ne faccio? E' come se io, fotografo, avendo una macchina professionale, preferissi usare quella "usa e getta" per timore di svalutare chi non può permettersi una macchina precisa come la mia.
Vi confesso che quando al Grande Fratello quella ha iniziato a mostrare "superbia" io stesso per un attimo ho pensato: ma chi si crede di essere questa?
Fortunatamente la mia parte Razionale mi ha subito riportato alla mente la mia considerazione, spingendomi ad essere coerente.
Quanto amo la mia compagna Ragione.
In conclusione vi dico che la situazione è complicata: vorrei dirvi di fregarvene di cosa dicono gli idioti ed usare, o abusare qual'ora vi fosse il bisogno, delle vostre qualità e dei vostri meriti, ma questo vi metterebbe in cattiva luce con la maggior parte della società, che sarà anche composta da idioti, ma nella situazione attuale conta più la quantità della qualità.
Potete fregarvene o potete sottostare ai dettami della società per restare in armonia con essa e non essere etichettato come superbi.
A voi la scelta, miei cari.
Auguro a tutti una buona notte.
Marco Migliaccio
Vi segnalo questa pagina in cui è scritta una concezione diversa dalla mia e più psicologica della superbia:
http://www.iovalgo.com/l%e2%80%99-invidia-e-la-superbia-sorelle-del-disprezzo-3223.html/comment-page-1#comment-5403
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mercoledì 12 ottobre 2011
Stay hungry, stay foolish! Stay calm.
Pochi giorni fa è venuto a mancare un grande inventore contemporaneo, una persona che ha apportato enormi vantaggi nel mondo della TECNOLOGIA: Steve Jobs.
Steve Jobs è stato l direttore dell'Apple, è stato la mente di grandissime invenzioni, invenzioni che hanno migliorato il nostro modo di viviere, badate bene: migliorato, non rivoluzionato.
Quello di cui vi voglio parlare oggi non è la genitalità di Steve Jobs o le sue invenzioni, vi sono già milioni di sit che in questo momento stanno decantando le sue lodi. E' proprio di queste che vi voglio parlare: delle lodi che gravitano intorno alla figura di Steve Jobs.
Non voglio negare l'intraprendenza del signor Jobs, nè la sua capacità di anticipare i desideri del compratore (o meglio: di dirigere i desideri del compratore) quello che voglio negare sono le definizioni che si danno adesso di Steve Jobs.
Steve Jobs era un INVENTORE, una persona che si dedicava ad invenzioni utili per le persone servendosi della tencologia e della scienza per migliorare i suoi prodotti. Questo era Steve Jobs.
Adesso, naturalmente, tutte le persone deboli di mente, diranno: certo, è solo un inventore.
Purtroppo di Steve Jobs in Interne si legge questo: I giornali e la rete sono pieni, oggi, di commenti e retrospettive e dichiarazioni su Steve Jobs. Il profeta, il genio, il guru, il rivoluzionario.
Il profeta? Forse le persone hanno raggiunto un livello d'ignoranza talmente elevato da non capire più il significato della parola profeta: Maometto era un profeta, Gesù Cristo era un profeta, Buddha era un profeta. Steve Jobs non ha profetizzato nulla, non ha creato alcune profezia o altro, nè nulla che si avvicini lontanamente ad essa. Steve Jobs creava gli iPhone.
Steve Jobs oltre ad essere chiamato guru e profeta ha ricevuto anche un'altra nomina: Filosofo.
Filosofo? Steve Jobs un filosofo? Quando ho sentito gente definirlo in quel modo avrei voluto aprirmi il cranio col il De Republica di Platone.
Ma va bene, ammettiamo che Steve Jobs sia un filosofo, prendiamo in esame le sue frasi più note ed analizziamone i profondi contenuti ontologici e gnoseologici.
Stay hungry, stay foolish: Frase che spopola nel web, pronunciata dal nostro filosofo durante un discorso tenuto presso un'università americana; tradotta è: siate affamati, siate folli.
Siate affamati: Proabilmente lui intende affamati di successo, non datevi per vinto, continuate ad inseguire i vostri sogni ed altri concetti banali, poco originiali e sicuramente ancor meno filosofici.
Siate folli: Più che alla follia, il filosofo esorta all'originalità, con siate folli vuol dire: siate abbastanza geniali da trasferire la vostra originalità anche in quello che fate.
Altri concetti espressi dal profeta sono: seguite il vostro cuore, non vi arrendete, raggiungete i vostri sogni ecc. Concetti che io sentivo nei cartoni disney che guardavo da bambino.
Un'altra frase, che sembra essere una delle più grandi del nostro profeta, è: la morte è la migliore invenzione della vita perché ci costringe a usare al meglio, seguendo l'istinto, il tempo concessoci.
(Nel sito da cui ho preso la frase, hanno addirittura evidenziato i caratteri principali della frase, dove il nostro filosofo-profeta-guru raggiunge il suo massimo genio.)
Inutile dare importanza alla seconda parte della frase: perchè ci costringe ad usare al meglio, seguendo l'istinto, il tempo concessoci. E' solo un metodo più elegante per esprimere il concetto trito e ritrito vivi ogni giorno come se fosse l'ultimo.
Soffermiamoci, però, sulle prime parole: La morte è la migliore invenzione della vita.
Concentriamoci sul verbo: inventare.
Inventare: creare, ideare, escogitare. Tutti questi verbì sottointendo una cosa: la volontà. Questo vuol dire che la vità ha voluto creare qualcosa che l'annullasse, cosa che va contro il naturale istinto di conservazione dell'essere umano. Pensateci: la vita vuole a tutti i costi essere preservata e crea di sua spontanea volontà qualcosa che la distrugga?
Inoltre sappiamo che se la morte non esistesse, non esisterebbe neanche la vita, in quanto sarebbe impossibile distinguere vita e morte se una delle due non ci fosse; questo implica che la vita non può inventare la morte, in quanto non potrebbe esistere senza la morte.
Ecco smontata in due colpi la grande teoria rivoluzionaria del nostro filosofo.
Non voglio denigrare Steve Jobs, lungi da me tale pensiero, voglio solo porre le cose sul posto giusto: Steve Jobs non era un filosofo, non era un guru, non era un profeta, era un genio informatico, ed è stupido attribuirgli titoli in materie in cui probabilmente Steve Jobs era totalmente ignorante, come se io che di software non ne capisco nulla, mi autdefinissi: genio informatico. Come io sono ignorante nella creazione dei sfotware e nell'informatica, Steve Jobs non mi sembra essere meno ignorante nella filosofia.
Adesso tutti gli americani iniziano ad idolatrarlo come se fosse un eroe di patria, non mi stupirei se tra qualche anno al monte Rushmore fosse aggiunto anche il suo volto.
Steven Spielberg lo ha definito: il più grande inventore dopo Thomas Edison, buttando nel cesso centoncinquanta anni di scienza.
Ci sono fisici e chimici che hanno posto le basi e creato i primi apparecchi per ottenere in un probabile futuro fonti d'energia INFINITE, ma questi non sono niente in confronto a Steve Jobs, dopotutto che c'importa dell'energia infinita? Noi abbiamo l'i-Pad!
In conclusione, miei cari, vi dico: abbiate capacità di giudizio e ponete le cose sul giusto piano.
Steve Jobs è stato uno dei più grandi inventori informatici. Non un filosofo. Non un guru. Non un profeta. Non un rivoluzionario del mondo.
Un genio informatico. Nient'altro.
Marco Migliaccio
Segnalo, per tutti quelli che volessero delucidazioni in merito, un blog dove viene fatta luce su tutte le "invenzioni" di Steve Jobs.
http://bricke.blogspot.com/2011/10/steve-jobs-non-ha-inventato-nulla-ma-lo.html
martedì 13 settembre 2011
La moda di essere "se stessi"
Tra gli anni '60 e gli anni '70 ha preso piede una nuova concezione dello stile e del rapporto con gli altri: essere se stessi.
Essere se stessi inzialmente voleva dire valorizzare l'individuo per quello che era e non per quello che mostrava, sminuendo l'apparenza e dando importanaza all'essenza, non mi dilungo sul rapporto tra apparenza ed essenza, su questo problema hanno discusso per anni filosofi ed intellettuali ad incominciare da Eraclito.
Concentriamoci sulle tre regole fondamentali di questa nuova moda.
Prima regola: fregarsene di come si è o di come ci si presenta, quello che conta è quello che hai dentro.
Seconda regola: fregarsene di cosa pensano gli altri e fregarsene di come ti considerano.
Terza regola: conformarsi è sinonimo di poca personalità e debolezza.
Adesso, queste regole all'inizio incarnavano dei buoni ideali, anche condivisibili, ma col tempo si sono deformate fino a diventare quasi ridicole. In questo post le analizzerò tutte.
Fregarsene di come si è: questo vuol dire accettarsi nonostante ogni difetto si abbia, paradossalmente questa regola ha portato la gente ad incrementare i propri difetti. Ho visto poco tempo fa la pubblicità della serie Glee, dove un gruppo di persone di ogni tipo canta e balla la canzone: I was born this way, che, per quanto sia orecchiabile e piacevole, incarna proprio questi ideali. Vedere una grassona negra che balla quella canzone, quasi fiera di essere così, non è proprio il massimo. Adesso non vi dico che bisogna rinchiudersi in casa, piangere, e diventare anoressici se si è sovrappeso, lungi da me una tale considerazione, ma fregarsene del tutto della propria apparenza E' SBAGLIATO. Questo ideale inzialmente voleva dire: se qualcuno non ti accetta per come sei realmente, allora allontanalo; naturalmente la frase "per come sei realmente" si riferiva alle tue idee e le tue opinioni, cioè se qualcuno non accetta le tue opinioni, allora allontanalo. Questo è giusto, ma, naturalmente, la massa d'idioti l'ha intesa così: a che serve cercare di migliorare il proprio aspetto fisico? Tanto importa quello che ho dentro. L'apparenza è importantissima. L'apparenza può essere modificata, può mostrarti in diversi modi a seconda delle occasioni, renderti VERSATILE, ed è ancora più importante oggi, visto che adesso è l'apparenza la prima cosa a cui si da importanza. Ignorare l'apparenza vuol dire avere poca cura di sè, questo porta ad essere sciatti e di conseguenza, ancora più evitati. Oggi seguire questa regola produce esattamente il risultato opposto di ciò che si voleva ottenere.
La stessa cosa vale per i vestiti: chiunque e ripeto CHIUNQUE avrà sentito da diverse persone, o avrà detto lui stesso questa frase dinnanzi alla contestazione di un modo di vestire o din un capo d'abbigliamento: ma che me ne fotte? L'importante è che piace a me, deve piacere a me. SBAGLIATO.
Non deve piacere SOLO a te. Non vi sto dicendo di comprare qualcosa che odiate, con cui state scomodi e vi sentite inopportuni, peggiorerebbe la situazione, quello che dico è di non comprare cose che piacciono eslcusivamente a voi o ad una ristretta cerchia di persone. Il vestito che indossate deve piacere tanto a voi quanto agli altri, deve essere considerato bello in generale, e se la gente non lo considera bello, ma piace a me, non lo si mette in pubblico. I vestiti sono nati come protezione dal freddo dalle intemperie ecc... adesso il vestito ha totalmente perso questa funzione, il vestito è uno strumento sociale, un veicolo di comunicazione, col vestito ci si rapporta con la società, e se non volete essere degli eremiti, dovete vestirvi con qualcosa che la società ben vede. Vestirsi con qualcosa di mal visto dalla società vuol dire rapportarsi con la società in malomodo, come se io volessi diventare amico di qualcuno e, per approcciarlo, inziassi a picchiarlo invece di parlarci. Non si creerebbe di certo un buon rapporto e visto che vivete in società E' NECESSARIO creare un buon rapporto con essa, se no non dovete vivere in società. Quello che ho scritto vale anche per la seconda regola, la quale all'inizio voleva dire: Se qualcuno pensa o considera le tue idee siano stupide, ascoltalo, e se necessario, fregatene conservando la tua autonomia.
Naturalmente la massa d'idioti ha rapportato la regola, che riguardavo l'astratto, al concreto.
Così da far sì che questa massa se ne se ne fregasse completamente di cosa pensavano gli altri, producendo menefreghismo ed egoismo, l'effetto opposto; inoltre gli "altri" di cui ci si frega, costituiscono la società e fregarsene di cosa loro pensano peggiora ancora il rapporto con loro.
La terza regola è la più difficile, nasconde una metà di verità ed una metà di errore, questa regola intendendeva, ovviamente, evitare di conformarsi con le idee e le opinioni, vero segno di debolezza e poca personalità.
Indovinate la massa d'idioti che ha fatto? Sono sicuro che la metà di voi ci è arrivata.
L'altra metà fa parte della massa.
Rapportandola al concreto, la massa d'idioti ha trasformato così la regola: dobbiamo essere diversi in tutto e per tutto, imitare il modo di vestire o di parlare di un altro vuol dire essere deboli. SBAGLIATO. Conformarsi vuol dire accettare le regole che la società c'impone, le regole della società cambiano continuamente e noi dobbiamo adeguarci, conformarsi non vuol dire essere deboli, quando qualcuno si conforma e per sentirsi parte integrante di questa società, e non c'è altro modo di sentirsi parte integrante della buona vecchia società, inoltre, se capite l'idiozia odierna delle prime due regole, vi verrà naturale conformarvi.
Per conformarsi non intendo pensarla come la pensano tutti: questo E' SBAGLIATO. Conformarsi vuol dire vestirsi come si vestono gli altri, adottare alcune usanze (non tutte) che vanno di moda ed usano gli altri, essere simile negli atteggiamente, ma NON nelle idee. Diventare simili agli altri, non solo vi facilita la vita, ma vi da modo anche di rapportarvi con la massa d'idioti: le persone intelligenti saranno conquistate dal vostro carattere e dalla vostra mente, la massa d'idioti saranno conquistate dal vostro modo di agire e di vestire. Vincete su ogni fronte. E' l'unico modo per rapportarvi con la massa d'idioti (che da ora chiameremo semplicemente "Popolo", questa parola non ha alcun richiamo aristocratico, ma gli idioti sono talmente tanti che potrebbero costituire un popolo). Adesso vi state chiedendo: ma perchè io, persona intelligente, devo rapportarmi con il Popolo? Perchè costituiscono la gran parte della società, ed anche la parte più influente, rapportarsi anche con loro E' NECESSARIO. Vestirsi in modo totalmente diverso, o agire in modo totalmente contrario a quello accettato dalla società rivendicando quella vostra tanto agoniata "libertà" NON è sinonimo di originalità, è solo manifesto di una ribellione inutile e stupida.
Non fate l'errore, però, di conformarvi anche con le idee, perchè sareste completamente risucchiati dal Popolo e diventereste degli idioti.
Per questo dico sempre: conformarsi col vestiario e non con le idee.
Vi auguro buona lettura e buona notte, miei adorati.
Marco Migliaccio.
domenica 11 settembre 2011
Un'utile costrizione.
Una persona a me cara mi ha consigliato di aprire quesot blog. Potrebbe essere una buona idea. Ha detto Potresti dare sfogo a tutto quello che pensi. Ha detto. Potresti anche trarne qualcosa di concreto. Ha detto.
Ma a me non serve concretezza, a me serve astrazione.
Come per tanti di voi, lettori e non, per me domani è il primo giorno di scuola: l'inizio dei doveri, l'inizio dei sacrifici, dei dolori e, a volte, delle gioie. Questa situazione mi fa riflettere; essendo una persona dal carattere altalenante, ciò che prima mi appare insopportabile, poco dopo sembra diventare quasi rassicurante, eppure per la scuola questa non accade. Il piatto della bilancia del dolore è troppo pesante perchè quello della gioia possa eguagliarlo.
Non v'ingannate, non sono qui per dire che la scuola è uno schifo e che sapere cosa pensava Platone sulle idee secoli fa o sapere fare una disequazione sarà totalmente inutile nella vita, io non sono uno dei soliti studenti contro scuola, nè uno di quegli adoranti dell'istruzione scolastica, ma ammetto che se non fosse per la scuola sarei la metà di quello che sei. Sia in senso positivo che negativo.
In questo mio post la scuola avrà solo il valore di manifestazione del dovere imposto. La scuola NON è un Dovere, è un dovere. Un dovere impostoci dalla società in cui viviamo, così come lo è il lavoro, un falso dovere poichè non è radicato nella natura dell'essere umano: se deste ad un uomo la possibilità di condurre la stessa identica vita senza lavorare, nessuno lo sentirebbe più come un dovere e tutti abbandonerebbero il lavoro. Il vero Dovere che noi soddisfiamo lavorando è il Dovere di vivere, senza lavoro non si può vivere e noi DOBBIAMO vivere, è uno dei Doveri reali; i Doveri reali, però, non si limitano solo ai bisogni dell'uomo, come, per l'appunto, vivere oppure mangiare, dormire e scopare, i Doveri reali sono qualcosa di molto più astratto. Avete mai provato il Dovere di vedere un amico o il Dovere di uscire? Uscite con i vostri amici nonostante non abbiate voglia perchè vi sentite in Dovere con loro, in Dovere di non privarli della vostra presenza, in quanto è necessario per il loro bene che voi stiate lì, anche solo a tenere loro compagnia in una serata noiosa e vuota.
Il Dovere non è solo ciò che è necessario fare, ma anche ciò che non cede alle voglie e ai capricci in alcun modo.
La scuola può sembrare tale, in quanto, nonostante non ci vogliate andare, ci andate lo stesso, ma la vostra poca voglia non incide sullo studio e sull'attenzione? E se aveste la possibilità di decidere un giorno in cui la voglia vi abbandona, non scegliereste di saltare quell'aborto del piacere? Allora la scuola cede alla voglia e ai capricci.
Altra cosa che ritengo ridicola della scuola è il fine che le si attribuisce.
Questo discorso vale soprattutto per i licei, ma non esclude del tutto gli istituti professionali.
Provate a cheidere ad un professore a cosa serve la scuola; il 90% di loro vi rispondere che la scuola serve per trovare lavoro in futuro. Mi viene in mente una scena che ancora conservo nella mia memoria: ero in prima media, il primo giorno di scuola e, dopo pochi minuti dal suono della campanella, dalla porta entrò il preside. Un uomo alto, con dei baffi neri che gli conferivano un'area quasi maestosa, rassicurante, come i padri-eroi della Disney: buoni ed amorevoli. A regalargli un'area ancora più imponente era il vestiario, giacca e cravatta, qualcosa che allora avevo visto solo in televisione o indosso a mio padre; credo che fu per quello che ne fui rassicurato all'inizio, lo associai a mio padre nelle serate di famiglia più eleganti, quelle in cui era più felice.
Il volto non poteva di certo tradire quest'amplesso di serietà.
La fronte era corrugata, questo accentuava la rughe rendendo quella faccia ancora più saggia; gli occhi dritti dinnanzi a sè, non mostrarono nessuna curiosità per i piccoli esseri umani presenti in quella classe; le labbra erano serrate tra loro, coperte dai grandi baffi e le narici si dilatavano lentamente.
Non si schiarì la voce, non fece alcun gesto, non gesticolò. Fece scorrere gli occhi per la classe e disse "Ragazzi! Vediamo di studiare, questa è la scuola più importante, senza licenza di terza media non puoi neanche andare a vendere la frutta su di un carretto in mezzo alla strada!" Più che parlare, gridò. Allora non capì quelle parole, adesso ne ho compreso la gravità.
Io non vado a scuola per trovare qualcosa di meglio che fare il fruttivendolo in mezzo ad una strada, io vado a scuola per il SAPERE, e qui torniamo al discorso di prima: come fa la maggior parte dei professori a pretendere ideali e senso del Dovere, due concetti astratti, se per loro la scuola ha un fine ESCLUSIVAMENTE concreto? Come possono pretendere l'evoluzione della mente se fanno propaganda dell'evoluzione del sapere pratico? Per loro imparare ha un fine fuori di sè: io imparo per mettere in pratica. No! Questo tipo di sapere, per Platone, è utile e assolutamente non disprezzabile, ma non è il tipo di conoscenza più alta. Io imparo per il piacere d'imparare, conosco perchè voglio conoscere, mi acculturo perchè sento il bisogno di cultura. Un sapere fine a se stesso. La gente dovrebbe smetterla di considerare la scuola per quello che darà loro in futuro,e dovrebbe iniziare a considerare la scuola per quello che da loro ORA.
Se gli studenti lo capissero, molti di loro si metterebbero l'animo in pace.
Vi lascio con questa mia considerazione: la scuola non è un Dovere, è un'utile costrizione.
Auguro a tutti voi buonanotte ed un piacevole rientro a scuola.
Marco Migliaccio.
Ma a me non serve concretezza, a me serve astrazione.
Come per tanti di voi, lettori e non, per me domani è il primo giorno di scuola: l'inizio dei doveri, l'inizio dei sacrifici, dei dolori e, a volte, delle gioie. Questa situazione mi fa riflettere; essendo una persona dal carattere altalenante, ciò che prima mi appare insopportabile, poco dopo sembra diventare quasi rassicurante, eppure per la scuola questa non accade. Il piatto della bilancia del dolore è troppo pesante perchè quello della gioia possa eguagliarlo.
Non v'ingannate, non sono qui per dire che la scuola è uno schifo e che sapere cosa pensava Platone sulle idee secoli fa o sapere fare una disequazione sarà totalmente inutile nella vita, io non sono uno dei soliti studenti contro scuola, nè uno di quegli adoranti dell'istruzione scolastica, ma ammetto che se non fosse per la scuola sarei la metà di quello che sei. Sia in senso positivo che negativo.
In questo mio post la scuola avrà solo il valore di manifestazione del dovere imposto. La scuola NON è un Dovere, è un dovere. Un dovere impostoci dalla società in cui viviamo, così come lo è il lavoro, un falso dovere poichè non è radicato nella natura dell'essere umano: se deste ad un uomo la possibilità di condurre la stessa identica vita senza lavorare, nessuno lo sentirebbe più come un dovere e tutti abbandonerebbero il lavoro. Il vero Dovere che noi soddisfiamo lavorando è il Dovere di vivere, senza lavoro non si può vivere e noi DOBBIAMO vivere, è uno dei Doveri reali; i Doveri reali, però, non si limitano solo ai bisogni dell'uomo, come, per l'appunto, vivere oppure mangiare, dormire e scopare, i Doveri reali sono qualcosa di molto più astratto. Avete mai provato il Dovere di vedere un amico o il Dovere di uscire? Uscite con i vostri amici nonostante non abbiate voglia perchè vi sentite in Dovere con loro, in Dovere di non privarli della vostra presenza, in quanto è necessario per il loro bene che voi stiate lì, anche solo a tenere loro compagnia in una serata noiosa e vuota.
Il Dovere non è solo ciò che è necessario fare, ma anche ciò che non cede alle voglie e ai capricci in alcun modo.
La scuola può sembrare tale, in quanto, nonostante non ci vogliate andare, ci andate lo stesso, ma la vostra poca voglia non incide sullo studio e sull'attenzione? E se aveste la possibilità di decidere un giorno in cui la voglia vi abbandona, non scegliereste di saltare quell'aborto del piacere? Allora la scuola cede alla voglia e ai capricci.
Altra cosa che ritengo ridicola della scuola è il fine che le si attribuisce.
Questo discorso vale soprattutto per i licei, ma non esclude del tutto gli istituti professionali.
Provate a cheidere ad un professore a cosa serve la scuola; il 90% di loro vi rispondere che la scuola serve per trovare lavoro in futuro. Mi viene in mente una scena che ancora conservo nella mia memoria: ero in prima media, il primo giorno di scuola e, dopo pochi minuti dal suono della campanella, dalla porta entrò il preside. Un uomo alto, con dei baffi neri che gli conferivano un'area quasi maestosa, rassicurante, come i padri-eroi della Disney: buoni ed amorevoli. A regalargli un'area ancora più imponente era il vestiario, giacca e cravatta, qualcosa che allora avevo visto solo in televisione o indosso a mio padre; credo che fu per quello che ne fui rassicurato all'inizio, lo associai a mio padre nelle serate di famiglia più eleganti, quelle in cui era più felice.
Il volto non poteva di certo tradire quest'amplesso di serietà.
La fronte era corrugata, questo accentuava la rughe rendendo quella faccia ancora più saggia; gli occhi dritti dinnanzi a sè, non mostrarono nessuna curiosità per i piccoli esseri umani presenti in quella classe; le labbra erano serrate tra loro, coperte dai grandi baffi e le narici si dilatavano lentamente.
Non si schiarì la voce, non fece alcun gesto, non gesticolò. Fece scorrere gli occhi per la classe e disse "Ragazzi! Vediamo di studiare, questa è la scuola più importante, senza licenza di terza media non puoi neanche andare a vendere la frutta su di un carretto in mezzo alla strada!" Più che parlare, gridò. Allora non capì quelle parole, adesso ne ho compreso la gravità.
Io non vado a scuola per trovare qualcosa di meglio che fare il fruttivendolo in mezzo ad una strada, io vado a scuola per il SAPERE, e qui torniamo al discorso di prima: come fa la maggior parte dei professori a pretendere ideali e senso del Dovere, due concetti astratti, se per loro la scuola ha un fine ESCLUSIVAMENTE concreto? Come possono pretendere l'evoluzione della mente se fanno propaganda dell'evoluzione del sapere pratico? Per loro imparare ha un fine fuori di sè: io imparo per mettere in pratica. No! Questo tipo di sapere, per Platone, è utile e assolutamente non disprezzabile, ma non è il tipo di conoscenza più alta. Io imparo per il piacere d'imparare, conosco perchè voglio conoscere, mi acculturo perchè sento il bisogno di cultura. Un sapere fine a se stesso. La gente dovrebbe smetterla di considerare la scuola per quello che darà loro in futuro,e dovrebbe iniziare a considerare la scuola per quello che da loro ORA.
Se gli studenti lo capissero, molti di loro si metterebbero l'animo in pace.
Vi lascio con questa mia considerazione: la scuola non è un Dovere, è un'utile costrizione.
Auguro a tutti voi buonanotte ed un piacevole rientro a scuola.
Marco Migliaccio.
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